Il rischio clinico è la probabilità che un paziente sia vittima di un evento avverso, ovvero subisca un qualsiasi “danno o disagio imputabile, anche se in modo involontario, alle cure mediche prestate durante il periodo di degenza, che causa un prolungamento del periodo di degenza, un peggioramento delle condizioni di salute o la morte” (Ministero della Salute – Commissione Tecnica sul Rischio Clinico, DM 5 marzo 2003).
Dato che si parla di un concetto probabilistico, quindi della probabilità dell’accadimento di un determinato errore/danno, la figura dell’infermiere è fondamentale, in quanto, essendo un esercente la professione sanitaria (Legge Gelli-Bianco 24/2017), è un protagonista di tutte quelle attività di prevenzione del rischio (art.1 L. 24/2017).
Le “armi” che un professionista sanitario deve utilizzare per gestire e/o contenere il rischio sono le linee guida e le buone pratiche clinico-assistenziali (art.5 L. 24/2017), le quali servono a garantire il massimo livello di qualità e sicurezza delle cure in sanità.
Bisogna sempre ricordarsi che il rischio non è mai uguale a zero, ma è sempre presente nella potenzialità di creare un danno più o meno grave. Ciò non vuol dire che dobbiamo necessariamente vivere nel terrore di sbagliare durante un turno di lavoro e/o di creare un danno ad un nostro assistito.
L’infermiere nella sua quotidianità deve mettere in pratica tutte quelle azioni che hanno come obiettivo la prevenzione. Come si dice prevenire è meglio che curare. Proprio per questo un esercente la professione sanitaria deve pianificare le proprie attività, mettere in pratica ciò che è stato pianificato, monitorare l’effetto di quanto messo in pratica verificandone l’efficacia e valutare eventuali azioni di miglioramento.
Il risk management è un’attività ciclica, non ha mai fine, è in continua evoluzione. Proprio per questo motivo un infermiere deve aggiornarsi continuamente (corsi ECM, master, magistrale, etc.) in modo tale da avere competenze sempre “fresche” e attuali per gestire al meglio le variabili con le quali il professionista si deve quotidianamente interfacciare sul posto di lavoro (ospedale, clinica privata, territorio, etc.).
È importante sottolineare il fatto che, la maggior parte degli sbagli in sanità dipendono dall’organizzazione (errori latenti) e non dal singolo operatore (errore di esecuzione/attivo). Quindi la natura dell’errore non può focalizzarsi solo e unicamente sull’abilità e l’addestramento del personale (il right stuff), ma deve coinvolgere anche l’intera progettazione del sistema lavoro.
La causa radice/generatrice (root cause) ha origine da decisioni manageriali e scelte organizzative sbagliate. Il focus delle risorse deve essere indirizzato più sugli errori latenti che si quelli attivi, in quanto questi ultimi sono la causa più prossima all’evento incidentale ma non quella scatenante.
Detto ciò, si può dire che la sicurezza del paziente deriva, pertanto, sia dalla capacità di progettare e gestire organizzazioni in grado di ridurre la probabilità che si verifichino errori (azioni di prevenzione), sia di contenere gli effetti degli eventi avversi (protezione).
La gestione del rischio è una metodica preventiva che abbraccia la “filosofia” del capire perché si è caduti nell’errore e non nel punire chi ha sbagliato, ridefinire la progettazione di un determinato percorso che ha portato il professionista a sbagliare.
Il fine ultimo del risk management è la sicurezza del paziente e dell’operatore nello svolgimento del suo lavoro e migliorare la qualità delle prestazioni sanitarie, tutto questo attraverso una cultura basata sull’apprendere dall’errore.
Come dice John Keats: Non essere scoraggiato dal fallimento. Può essere un’esperienza positiva.
Il fallimento è, in un certo senso, la strada per il successo, poiché ogni scoperta di ciò che è falso ci conduce a cercare con zelo ciò che è vero, ed ogni nuova esperienza punta ad alcune forme di errore che dobbiamo poi evitare attentamente.”