Sarà capitato, durante l’esperienza lavorativa di ogni infermiere, di sentire un paziente urlare qualche improperio o qualche parolaccia in un momento di particolare dolore. Ma ci siamo mai chiesti per quale motivo si dicano proprio le parolacce quando si prova dolore e quale sia il meccanismo che sta dietro a questo fenomeno? Un recente studio1, portato avanti dalla rivista Lingua, si è posto proprio questa domanda e, attraverso la revisione di oltre cento articoli accademici di diverse discipline, ha analizzato come queste espressioni linguistiche influenzano e sono a loro volta influenzate dal nostro modo di pensare e dalla presenza, ad esempio, di patologie neurologiche o danni cerebrali. Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricercatori provenienti da tre università del Regno Unito in collaborazione con la svedese Södertörn University. Questo studio ipotizza che, quando si dicono parolacce, si attivino strutture profonde del cervello e porzioni diverse rispetto a quelle legate all’attività linguistica standard. Questo spiegherebbe, tra le altre cose, perché i pazienti con disturbi neurologici e lesioni cerebrali, che compromettono le capacità linguistiche, possano mantenere inalterata la capacità di imprecare o per quale motivo i pazienti affetti da sindrome di Tourette soffrano di coprolalia (un tic che comporta l’emissione involontaria di parole o frasi, ritenute oscene o offensive, non contestualizzabili all’interno della situazione in cui ci si trovi). Una delle parti del cervello più coinvolte nel meccanismo di regolazione verbale è l’amigdala, la parte del sistema limbico che aiuta a regolare le emozioni e che è responsabile della creazione e della memorizzazione dei ricordi. Queste ipotesi sono confermate, peraltro, dai risultati di alcuni esperimenti da cui emerge che le parolacce vengano ricordate più facilmente rispetto a parole più “neutre”.
Emerge anche la correlazione tra le imprecazioni e l’aumento della soglia del dolore. Questa componente viene presa in esame grazie alla ricerca2 di Richard Stephens, docente alla scuola di psicologia della Keele University, che si è interessato a questo fenomeno dopo aver sentito sua moglie «bestemmiare a profusione» durante il travaglio e il parto. Stephens racconta che le ostetriche rimasero impassibili per tutto il tempo. Le stesse spiegarono poi che durante il parto molte donne imprecano o insultano chi le circonda. Incuriosito da questa strana circostanza, Stephen, con l’aiuto di altri ricercatori, chiesero a un gruppo di volontari di sperimentare l’immersione di una mano in acqua ghiacciata e di resistere più al lungo possibile alla sensazione di fastidio/dolore sperimentato. La prima volta chiesero di farlo pronunciando ripetutamente una parolaccia («fuck», «cazzo»), la seconda volta gli chiesero invece di fare la stessa cosa ma utilizzando parole neutre o parole senza significato ma dal suono simile a quello di una parolaccia, misurando poi la frequenza cardiaca dei partecipanti durante entrambi gli esperimenti. I risultati dello studio mostrarono che le persone in grado di resistere più a lungo erano quelle che avevano detto più parolacce e che, le stesse, valutavano l’esperienza come meno dolorosa e mostravano un aumento maggiore della frequenza cardiaca rispetto a quando che avevano imprecato utilizzando altre parole. Secondo l’ipotesi di Stephens, l’aumento della frequenza cardiaca potrebbe essere legato al rilascio di neurotrasmettitori, primo tra tutti l’adrenalina, che attiva i meccanismi di difesa in momenti di stress e di pericolo, e risulta efficace nel rendere più sopportabile la sensazione di dolore.
L’idea condivisa dagli studiosi è che, in generale, si tratti di un argomento ancora in larga parte sconosciuto, soprattutto per mancanza di informazioni più approfondite sul meccanismo che regola il rapporto parolacce/dolore dal punto di vista fisiologico. Una delle ipotesi formulate da Stephens per spiegare la capacità di queste espressioni di influenzare la soglia del dolore, è di tipo “cognitivo comportamentale”. Infatti ritiene che il loro radicamento nel linguaggio sia il risultato di condizionamenti che si verificano durante l’infanzia. Si pensi, ad esempio, alle punizioni che genitori e tutori mettono in pratica nei confronti dei bambini quando questi pronuncino una parolaccia. Tali condizionamenti finiscono per rafforzare certe associazioni tra stimoli (parolaccia-punizione) e permangono quindi durante la crescita e nell’età adulta. Per questo motivo si “esplode” soltanto in determinati momenti e contesti, come ad esempio quando proviamo dolore. Ma questo non basta a spiegare per quale motivo, quando si pronuncino determinate parole, il nostro cervello sia in grado di registrare come meno dolorosa l’esperienza che stiamo vivendo. Dal nostro punto di vista ci interessa però sapere che, quando un nostro paziente che sta soffrendo dice parolacce, ci insulta o bestemmia, nella maggior parte dei casi non vuole offenderci ma sta cercando di trovare un modo per superare, inconsciamente, quel momento di difficoltà.
- Karyn. Stapleton, Kristy. Beers Fägersten, Richard. Stephens, Catherine. Loveday. The power of swearing: What we know and what we don’t. Lingua, Volume 277, October 2022, 103406. https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S002438412200170X;
- Richard Stephens. Think swearing isn’t big or clever? Think again. The Conversation. February 1, 2017. https://theconversation.com/think-swearing-isnt-big-or-clever-think-again-71043;