La procedura di reperimento dell’accesso vascolare è vissuta da molti studenti di infermieristica come una misura delle proprie capacità. Ovvero: riusciamo a posizionare un CVP di grosso calibro al primo colpo? Ci sentiremo dei GRANDI PROFESSIONISTI.
Non è così, ovviamente. L’esecuzione tecnica di una procedura non ci rende professionisti, quanto la capacità di combinare nella pratica skills appartenenti ad ambiti diversi, il continuo aggiornamento, e perchè no: la passione. E la pazienza. E la precisione. E la capacità di gestione emotiva.
Detto questo, c’è un segreto che è valido per tutti: saremo eccezionali reperitori di accessi periferici quando… ne avremo posizionati 100. A qualcuno basteranno 50, per qualcuno serviranno almeno 200. Senza contare che, se non lo facciamo per un po’ di tempo… dobbiamo riprendere la mano.
E sappi che anche il più bravo reperitore di accessi venosi ogni tanto sbaglia. E sbagliare, fallire, non è giudizio sulla nostra professionalità.
É difficile accettare il fallimento. Io lo metterei in cima alle ultime linee guida su come eseguire la procedura.
Come possiamo giustificare tutta questa tensione psicologica? Perché comprende il “provocare dolore” al prossimo. Siamo nati e cresciuti in una società in cui pungere persone con un ago è socialmente inaccettabile, e ora svolgiamo una professione che spesso ci mette nella posizione di provocare dolore. Per riuscire a farlo, dobbiamo superare questa cognizione che abbiamo appreso in tenera età.
Lo sappiamo: non ci dà alcun piacere (anzi: causare dolore CI provoca dolore), ed il bene che ne deriva supera di gran lunga il disagio. Nonostante questo, reperire un accesso venoso è fra le procedure più temute. Sai anche da chi? Dal paziente. Per una buona cura è indispensabile considerare l’aspetto emotivo.
Dobbiamo assumere un atteggiamento calmo e rassicurante, dimostrando sicurezza. E all’inizio, quando non possiamo essere sicuri, dobbiamo… simulare sicurezza. Non possiamo aspettare di essere pronti, prima di iniziare: altrimenti non inizieremo mai.
Dobbiamo dedicare tempo a spiegare la procedura e i benefici che il paziente ne trarrà. Poi: magari il paziente ha domande. Se noi lo informiamo, lui si sentirà più in controllo della situazione (ma anche noi!). A questo punto possiamo raccogliere il consenso informato.
Se il paziente è agofobico, spesso deriva da traumi pregressi. Assicuriamoci di avere tempo. Dobbiamo dedicare massima attenzione a tutte le fasi di preparazione, tenere il materiale nascosto alla vista fino all’ultimo, e magari usare anestetici locali come lidocaina topica. Il paziente potrebbe essere iperteso, tachicardico, tachipnoico, avere sudorazione accentuata, e quando vede l’ago potrebbe diventare bradicardico. Controlliamo fin da subito sia in una buona posizione in caso di svenimento.
A questo punto, attuiamo la respirazione controllata diaframmatica: insipiriamo gonfiando la pancia. Tratteniamo per tre secondi. Espiriamo.
Se il paziente si fida di noi, copierà il nostro pattern di respiro.
Assicuriamoci che il paziente sia comodo, e gli arti siano caldi. La maggior parte delle persone che incontriamo in ospedale non ha vene facilmente reperibili. Soprattutto se fa freddo, o se hanno pressione bassa, se bevono poco, se hanno grasso. Spesso, però, quallo che non vediamo con gli occhi, possiamo sentirlo con le dita.
Sai chi è il massimo esperto delle proprie strutture venose? Il paziente stesso.
“Qual è il suo braccio fortunato?”
Le prime volte che eseguiamo la procedura, ci sarà utile ripassare mentalmente il materiale e le azioni. Se lo facciamo ad alta voce, spiegando al paziente l’utilità di ogni oggetto ed ogni passaggio, serviamo un duplice scopo: ci assicuriamo di aver rifornito il carrello con tutto quello che ci servirà, e al paziente, perché così gli forniamo controllo sulla situazione (empowerment). Gran parte dell’ansia deriva dal non sapere, non capire.
Aghi cannula -prendine sempre più di uno, di varie di dimensioni-, garze o batuffoli di cotone imbevuti di clorexidina, laccio emostatico, telo assorbente -meglio creare sempre un campo di lavoro-, medicazione trasparente.
A questo punto l’accertamento che sia il paziente giusto è già stato fatto, e siami già igienizzati e guantati. Prima di iniziare, pensiamo a stare comodi. Alziamo il letto, distendiamo il braccio, stiamo seduti, assumiamo posizione mapu… pensiamo alla comodità. Mettiamo il laccio, ad occhio 10-15 centimetri sopra il punto che abbiamo scelto. Chiediamo al paziente di aprire e chiudere il pugno.
Non siamo più convinti? Togliamo il laccio, cambiamo sede. Riproviamo. A questo punto disinfettiamo, movimento circolare e centrifugo. Apriamo la confezione del cvp, tendiamo la cute e infiliamo l’ago nella vena scelta, partendo da 45° gradi, poi diminuendo l’angolazione man mano che si infila. Il sangue refluisce. Mentre continuiamo ad infilare il cvp, tiriamo indietro il mandrino. Nella vena è solo la cannulletta di plastica ad avanzare: perché l’ago lo stiamo sfilando insieme al mandrino. Prima di rimuoverlo, per non fare la zuppa di pomodoro -termine scientifico-, togliamo il laccio. Premiamo sulla vena che abbiamo incannulato e magari facciamo anche alzare il braccio al paziente. Ora sfiliamo del tutto il madrino. Il sangue non esce, perché stiamo applicando pressione. Per sicurezza, possiamo sempre applicare una garza sotto il raccordo aperto. É il momento di medicare.
Nel caso la procedura non fosse andata a buon fine? Nessun problema: medichiamo con una garzetta, facciamo un battuta. Ricominciamo, magari scegliendo una vena su cui ci sentiamo più sicuri.
FONTI
Resource Guide for Vascular Access. Association for Vascular Access, 2019
Short Peripheral Catheter Performance Following Adoption of Clinical Indication Removal, Journal of Infusion Nursing, DeVries, M, Volume 42, number 2, Mar/Apr 2019
Accepted but Unacceptable: Peripheral IV Catheter Failure, Journal of Infusion Nursing, Helm, R. E., et al, Volume 42, Number 3, May/June 2019